L’utilizzo del trust, quale negozio di segregazione patrimoniale strumentale al perseguimento di uno scopo, è stato oggetto di una recente sentenza della Suprema Corte che, individuando e circoscrivendo il corretto presupposto impositivo della tassazione indiretta applicabile al vincolo di destinazione sui beni, lo ha reso fiscalmente meno oneroso e maggiormente utile al perseguimento dei più variegati e meritevoli fini. Le occasioni di utilizzo di tale istituto, per altro, sono risultate considerevolmente ampliate e, finanche facilitate, dalle nuove norme contenute nel codice dell’impresa e dell’insolvenza, essendo il più utile e poliedrico istituto messo a disposizione dall’ordinamento giuridico.
Premessa
Attraverso la ratifica della Convenzione dell’Aja (del 1° luglio 1985), avvenuta con L. 364/1989, è stato introdotto nel nostro ordinamento un nuovo strumento giuridico, dalle spiccate doti di adattabilità al raggiungimento dei più disparati scopi, caratteristica di poliedricità che, unitamente alla circostanza che trattasi di un istituto che deriva da ordinamenti giuridici di common law, molto probabilmente, ha suscitato una certa diffidenza negli operatori del diritto1. Al riguardo, però, va preliminarmente rammentato che, come opportunamente sottolineato dalla Suprema Corte2, l’astratta valutazione di meritevolezza di tutela dell’istituto - al pari di qualsiasi contratto tipico presente nel nostro ordinamento - è stata effettuata dal Legislatore proprio mediante l’anzidetta legge di ratifica, con la conseguente attribuzione al trust di una piena cittadinanza nel nostro ordinamento, da cui deriva che il giudice, chiamato a pronunciarsi sullo stesso, non dovrà attuare alcuna valutazione in merito al rispetto del dettato dell’articolo 1322, cod. civ..
Caratteristica principale del detto istituto è il trasferimento di beni a un soggetto, detto trustee, in una posizione segregata tale da renderli indifferenti alle vicende attinenti sia il disponente (settlor), sia al soggetto trasferitario (trustee).
Il diritto sui beni trasferiti al trustee non risulterà limitato nel suo contenuto, ma lo sarà nel suo esercizio, essendo finalizzato alla realizzazione degli interessi dei beneficiari3.
Presupposto coessenziale all’istituto è che il disponente perda la disponibilità di quanto conferito in trust, pur potendo conservare determinati poteri riservatigli dall’atto, in quanto, ove dovesse risultare che la perdita del controllo sui beni è solo apparente, il trust risulterà nullo (sham trust) e improduttivo degli effetti segregativi che gli sono propri. Tale condizione, però, non preclude la possibilità che il disponente rivesta, nel contempo, il ruolo di trustee, in quanto il trust autodichiarato non è contrario a norme inderogabili, norme di applicazione necessaria e relative all’ordine pubblico4; tale impostazione, infatti, può risultare attaccabile solo quando dovesse risultare una costruzione apparente, cioè simulata, in quanto il disponente ha continuato a conservare la piena disponibilità di ciò che ha, solo fittiziamente, posto in trust5.
La legge di ratifica comporta che i beni, posti all’interno del trust, costituiscono una massa distinta rispetto al patrimonio del trustee, ciò nonostante ne sia l’intestatario, che dovranno essere amministrati dal trustee in modo conforme al perseguimento del programma stabilito nell’atto di trust, determinando una “dissociazione fra intestazione dei beni al nome del trustee e titolarità dell’interesse al bene, che è quello dei beneficiari e non del trustee”6.
Il trust di scopo
Tale tipologia di trust, funzionale al perseguimento di un determinato fine (ad esempio di garanzia), è normalmente carente dell’indicazione di destinatario finale, circostanza che, come autorevole dottrina7 ha opportunamente rammentato, nel diritto inglese avrebbe privato di legittimazione i “purpose trusts” (trust di scopo), in quanto la mancanza di un soggetto beneficiario che possa pretendere l’adempimento del trustee, risulta, in linea di principio, preclusiva alla facoltà di destinazione di un patrimonio al perseguimento di uno scopo8. Tale dottrina, però, ha rilevato, nel contempo, che la sussistenza di notevoli eccezioni a tale principio - quali quelli aventi natura di charitable trusts (in cui il ruolo di guardiano viene svolto dall’Attorney General per conto della Corona), i trust of imperfect obligation (trust anomali)9 o che rispetto ai quali esiste un certo numero di soggetti che ne traggono beneficio e non coincidono necessariamente con i soggetti che potranno pretendere l’attribuzione dei beni in trust - pongono lo stesso in discussione.
Dall’evoluzione della normativa in materia di trusts, rispetto al modello inglese, promulgata da numerosi Stati, è derivata una più ampia applicazione di tale strumento giuridico volta al perseguimento di uno scopo, in cui il beneficiario in senso stretto non è presente, pur sussistendo ed essendo individuato nella collettività10.
Nei Paesi di civil law la duttilità dell’istituto ha comportato che la normativa è giunta a creare un modello di trust, definito “civilistico”, che si caratterizza per il contenuto obbligatorio dei rapporti instaurati tra il disponente e il trustee, ciò proprio al fine del perseguimento dello scopo attribuitogli.
Articolo 2 della Convenzione dell’Aja:
“… per trust s’intendono i rapporti giuridici instituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico.”
Dalla definizione della Convenzione dell’Aja consegue una distinzione dei trust per tipologia, ciò a seconda che la gestione venga svolta nell’interesse di un beneficiario, oppure sia strumentale al perseguimento di uno scopo11.
La circostanza che il trust sia rivolto a perseguire uno scopo, non preclude, però, che gli siano attribuite finalità familiari, cioè che, pur non avendo specifici beneficiari, risulti collegato alla salvaguardia di un assetto familiare12. Tutto ciò, però, entro i limiti imposti dall’articolo 15 della Convenzione dell’Aja (ratificata dalla L. 364/1989), secondo cui la normativa in tema di trusts non potrà confliggere con quella propria dell’ordinamento interno13, relativamente a precipue materie, tra cui quella successoria, motivo per il quale, nel caso in cui il trust (o particolari disposizioni in esso contenute), dovesse determinare una lesione della quota di riserva spettante a un legittimario, questi potrà agire in riduzione per la tutela del proprio diritto14.
Il perseguimento dello scopo personale
Partendo dal presupposto che il trust nel nostro ordinamento è un negozio giuridico con causa variabile, solutoria, di gestione, di garanzia, a titolo oneroso o gratuito, comprendiamo la molteplicità di “veste”, cioè di scopo, che tale istituto può perseguire.
Occorre, inoltre, considerare che, ove il trust venga stipulato con finalità successoria, non integrerà un atto mortis causa - destinato a regolamentare rapporti patrimoniali successivi al decesso del de cuius, improduttivo di effetti prodromici - rappresentando, piuttosto, un atto avente effetti proiettati a un’epoca successiva alla morte del disponente.
Il trust di scopo, che è volto a destinare un fondo all’esclusivo perseguimento di uno scopo specifico, viene ritenuto valido in numerosi ordinamenti, ove soddisfi i seguenti requisiti: abbia una durata limitata; persegua uno scopo certo o ragionevole e, ovviamente, non contrario alla legge; venga istituito per atto formale o testamento con la nomina di almeno 2 trustee, nonché - ciò è fondamentale - un guardiano terzo e indipendente, con ampi poteri di controllo e intervento sull’operato dei trustee; venga prevista una causa al verificarsi della quale il trust abbia a cessare.
Nel trust di scopo non è escluso, comunque, che vi possano essere dei soggetti che abbiano diritto ad apprendere il fondo in trust che dovesse residuare al suo termine15, ma è assolutamente rilevante che lo scopo prevalga sui diritti degli eventuali beneficiari finali, per cui, non dovendo questi ultimi poter attuare alcuna ingerenza nella gestione del trustee, il diritto di controllo della relativa attività, volta al perseguimento dello scopo del trust, deve risultare limitato al guardiano; non risulterà, inoltre, ammissibile che parte del fondo venga distolto dal perseguimento del fine e posto a favore degli eventuali beneficiari, ciò almeno fino al termine trust.
Tra gli utilizzi del trust per fini personali è annoverabile il trust di garanzia16 mediante il quale si può offrire a un creditore, o un ceto creditorio, specifici beni - o valori - in garanzia, sottraendoli alle pretese di ulteriori creditori, senza oltretutto incorrere nel divieto del patto commissorio17. In tale caso il programma negoziale potrebbe prevedere, in luogo di un’ipoteca, la dotazione in trust di beni immobili volti al perseguimento della soddisfazione di una banca a fronte dell’erogazione di un mutuo, per il caso in cui si dovesse verificare un inadempimento, oppure la risoluzione del contratto, per cui, attraverso l’alienazione dei beni in trust, sarà possibile addivenire all’integrale soddisfazione dell’esposizione in essere nei confronti dell’istituto di credito.
Si ritiene rientri nella categoria del trust di scopo, quello avente la finalità di tutela di un soggetto incapace o disabile, che, attraverso la creazione di un fondo in trust, posto sotto l’amministrazione di un trustee, abbia lo scopo di provvedere alle esigenze di un soggetto “debole”, beneficiario, quindi, di uno stato di benessere, ove lo scopo, in tal caso, è coincidente esattamente con la finalità del trust18. Per altro, la tutela delle persone con disabilità rappresenta il perseguimento di una sentita esigenza sociale, in quanto tesa a garantire un’assistenza morale e materiale rispettosa della dignità umana, che, proprio perché tale, risulta incentivata dalla L. 112/2016, c.d. “Dopo di noi”, mediante sgravi fiscali volti a favorire la protezione, la cura, l’assistenza, la deistituzionalizzazione, l’autonomia e l’indipendenza delle persone disabili.
L’applicazione dell’istituto in ambito societario19 può risultare utile, ad esempio, per conformare preventivamente il volere dei soci di società di capitale (c.d. voting trust), evitando dissidi o contrasti in sede assembleare, specialmente nel caso in cui il capitale presenti un elevato frazionamento, tale da rendere difficile comporre una maggioranza stabile. In tale caso, attraverso il trasferimento delle quote (o azioni) in trust, si potrà permettere ai soci di dare indicazioni sulla finalità da perseguire, lasciando a un trustee professionale la libertà di scegliere la migliore e più efficace modalità per attuare lo scopo, sotto il controllo di un guardiano20, nonché agevolando il buon funzionamento dell’organo assembleare societario.
L’utilizzo dell’istituto del trust, attraverso il temporaneo e strumentale trasferimento delle quote e dei relativi diritti di voto, ha, inoltre, il pregio di risultare molto più efficace e stabile rispetto alla stipula di un patto parasociale, in quanto da quest’ultimo contratto possono sorgere solo effetti obbligatori tra i soci, per cui, in caso di inadempimento al patto, la stabilità di voto assembleare risulterebbe vanificata, residuando una mera facoltà di azione, per il risarcimento del danno, contro colui che ha violato il patto.
Ovviamente, per evitare di incorrere nel divieto di durata ultra quinquennale (sancito dall’articolo 2341-bis, comma 1, lettera c), cod. civ.) è opportuno che il trust non valichi detto termine21.
Altro possibile utilizzo del trust per fini personali, non essendo riconducibile alla categoria charitable22, è la destinazione di mezzi per la tutela di specifici animali - ipotesi che rappresenta un’eccezione di ammissibilità nell’ambito della legge inglese – scopo normalmente ammesso in vari ordinamenti. Tra le criticità da sottolineare per la valida creazione del trust, va considerato che le normative in materia sono solite prevedere che i mezzi economici destinati in trust non possano fuoriuscire dal circuito economico che per un limitato periodo di tempo23.
Il perseguimento di uno scopo sociale
L’istituto del trust è particolarmente avvezzo al perseguimento di un fine sociale, potendo, finanche, conseguire l’iscrizione nell’Anagrafe delle Onlus, con conseguente acquisizione di un’autonoma rilevanza fiscale e la possibilità di fruire del particolare e favorevole regime tributario24 - ciò, sempreché l’atto di trust soddisfi le condizioni richieste per il perseguimento di un fine di pubblico interesse - come dimostrato dai seguenti casi pratici: il “Trust Terremotati di Accumoli e Amatrice – Onlus”25, istituito al fine di promuovere la raccolta fondi per il sostenimento dei costi di assistenza alle vittime del sisma; il “Trust Ponte Morandi”26, avente lo scopo di alleviare gli inconvenienti e i disagi conseguenti al crollo del “ponte Morandi” di Genova.
Tra gli ulteriori possibili utilizzi del trust per fini sociali, vi può essere il perseguimento di un fine artistico e culturale, attuato mediante la dotazione in trust di beni e mezzi finanziari, volti alla creazione di un patrimonio, che, grazie al ricorso a trustee professionali, possa essere arricchito e funzionalizzato, attraverso l’acquisizione e la manutenzione di opere rientranti nelle più disparate forme d’arte, o aventi un contenuto storico, per la relativa valorizzazione, oppure, come spesso avviene, per la messa a disposizione della collettività.
Il perseguimento della soluzione della crisi d’impresa
Occorre premettere che il ricorso al trust liquidatorio ha piena legittimazione nel nostro ordinamento, ciò sempreché non venga utilizzato in un momento in cui l’impresa già verte in uno stato d’insolvenza, perché in tale caso l’effetto segregativo sui relativi beni finirebbe per avere lo scopo di eludere forme pubblicistiche di gestione della crisi d’impresa. La Suprema Corte27, al riguardo, ha avuto modo di distinguere, in astratto, 3 tipologie di segregazione patrimoniale:
1. quella volta a sostituirsi a una procedura liquidatoria;
2. quella definita endo-concorsuale, perché alternativa alle misure di risoluzione della crisi d’impresa;
3. quella anti-concorsuale, tesa a impedire lo spossessamento dell’imprenditore insolvente.
Rispetto ai diversi fini perseguibili per la soluzione della crisi, i giudici di legittimità hanno ritenuto lecite le prime 2 forme, in quanto sostanzialmente tese a conseguire una gestione concordata e vigilata della crisi d’impresa, che possa scongiurare il default aziendale, anche mediante ricorso a strumenti negoziali privatistici introdotti nel nostro ordinamento (piani attestati, accordi di ristrutturazione, concordato), mentre hanno censurato il perseguimento del terzo fine, proprio in quanto meramente teso a escludere il ricorso a una forma pubblicistica, destinata a subentrare al verificarsi dello stato d’insolvenza, ritenuta non surrogabile con strumenti di definizione privatistici.
A seguito dell’approvazione del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, avvenuta con D.Lgs. 14/2019 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 14 febbraio 2019), sembra potersi concludere che il Legislatore ha posto sempre maggiore attenzione alla crisi d’impresa imponendo all’imprenditore, specie se societario o collettivo, l’assunzione di strumenti di allert - sia interni, attraverso la previsione, sempre più estesa, dell’esigenza di designazione dell’organo di controllo, a cui sono stati anche ampliati i poteri di azione/reazione; nonché esterni, mediante procedure di segnalazione, da parte dei c.d.“creditori pubblici qualificati”, del mancato assolvimento dell’impresa agli obblighi tributari e contributivi - mediante l’introduzione dell’obbligo28 di adozione di un assetto organizzativo in grado di cogliere anzitempo l’insorgenza di uno squilibrio reddituale, patrimoniale o finanziario, nonché imponendo, all’insorgenza di una situazione di crisi, il ricorso obbligatorio ad un Organismo esterno di Composizione della crisi d’Impresa (Ocri), che “dovrà individuare con il debitore le possibili misure per porvi rimedio” (articolo 18, comma 4) e che potrà essere chiamato dal debitore ad attestare “la veridicità dei dati aziendali” (articolo 19, comma 3) nel caso di presentazione di domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione o concordato preventivo.
Tale evoluzione normativa, che, diversamente dal passato, distingue, all’articolo 2, tra “crisi”, intesa come:
“… lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore…”,
e “insolvenza”, intesa come:
“… lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fattori esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni…”,
introducendo degli strumenti che permetteranno, attraverso l’individuazione di specifici e determinati “indicatori della crisi” (articolo 13), una tempestiva presa di coscienza da parte dell’imprenditore della necessità di intervenire per risolvere una situazione di squilibrio, aprirà nuove e più ampie opportunità di utilizzo dell’istituto del trust finalizzato alla risoluzione della crisi d’impresa29, volto a intervenire idoneamente in un momento antecedente l’insorgenza di un irreversibile stato di default aziendale.
L’incidenza della tassazione sul trust di scopo e il recente orientamento di legittimità
Il ricorso allo strumento del trust di scopo è stato, in questi ultimi anni fortemente pregiudicato dall’incidenza fiscale, stante l’assoggettamento della dotazione in trust all’imposta sulle successioni e donazioni, nonché alle imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale.
Secondo l’Amministrazione finanziaria, la tassazione del trust liquidatorio comporta l’applicazione della tassazione di cui all’articolo 2, comma 47, D.L. 262/2006, in quanto la costituzione dei vincoli di destinazione è soggetta all’imposta sulle successioni e donazioni. In particolare:
“in tale categoria sono riconducibili i negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, con effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi”30.
L’Agenzia delle entrate, per altro, ritiene che:
“nel trust di scopo, gestito per realizzare un determinato fine, senza indicazione di beneficiario finale, l’imposta sarà dovuta con l’aliquota dell’8% prevista per i vincoli di destinazione a favore di “altri soggetti” (D.L. 262/2006, articolo 2, comma 48, lettera c)”31, nonché “sia l’attribuzione con effetti traslativi di beni immobili o diritti reali immobiliari al momento della costituzione del vincolo, sia il successivo trasferimento dei beni medesimi allo scioglimento del vincolo, nonché i trasferimenti eventualmente effettuati durante il vincolo, sono soggetti alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale”32.
Al riguardo, però, pur condividendo l’assunto che il trust si differenzia dal vincolo di destinazione, in quanto comporta la segregazione dei beni - ciò sia rispetto al patrimonio personale del disponente, che rispetto a quello dell’intestatario di tali beni (trustee) - la loro costituzione in trust rileverebbe, in ogni caso, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, indipendentemente dalla tipologia e finalità, a causa della natura patrimoniale del conferimento e dell’effetto segregativo che produce e questo ancorché il trasferimento della proprietà sia meramente strumentale all’amministrazione dei beni. Tale tassazione, secondo l’Amministrazione, troverebbe applicazione sia all’atto della costituzione del vincolo di destinazione, sia al successivo trasferimento in seguito al suo scioglimento33, che, infine, agli eventuali trasferimenti effettuati durante la vigenza del trust.
Nel corso degli ultimi anni si sono succedute svariate sentenza della Suprema Corte, giunte a difformi conclusioni in tema di tassazione indiretta della segregazione di beni in trust (sia aventi natura familiare sia di scopo), l’ultima delle quali, la Cassazione n. 1131/2019, relativa a un trust di scopo - sorto per raccogliere le erogazioni di alcuni enti che dovevano essere da impiegate per la realizzazione di un aeroporto - contrasta efficacemente la tesi dell’Amministrazione finanziaria, per i motivi che vedremo di seguito.
Va rilevato preliminarmente che la reintrodotta disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni ha posto una serie di problemi interpretativi, a causa dell’ampliamento del presupposto impositivo, in virtù del quale sono tassabili: i trasferimenti di beni a titolo gratuito, la costituzione dei vincoli di destinazione, nonché gli atti a titolo gratuito; conseguentemente, la tassazione non sarebbe più limitata alle sole “liberalità” di cui all’articolo 1, D.Lgs. 346/1990.
Tale modifica ha indotto a ritenere che il presupposto del tributo andasse ravvisato, più che nell'animus donandi, nell'accrescimento patrimoniale effettivamente conseguito dal beneficiario, senza contropartita.
La tassazione, poi, della costituzione dei vincoli di destinazione, fattispecie distinta dall’atto a titolo gratuito che comporta comunque un’attribuzione patrimoniale, avrebbe trovato il presupposto impositivo - ciò nella visione dell’Agenzia delle entrate - proprio nell'effetto segregativo, tipico degli atti costitutivi di vincoli di destinazione e funzionale al (successivo) trasferimento dei beni vincolati a favore di soggetti diversi dal disponente.
Tale visione, con riferimento alla quale la stessa Corte segnala aver trovato conforto in un precedente orientamento giurisprudenziale di legittimità non consolidatosi34, fondante su un’interpretazione c.d. “letterale” della norma, avrebbe svalutato la natura unitaria dell’istituto, individuando un “nuovo” presupposto impositivo, nella semplice “predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti” dal trust, che individua la base imponibile dell’imposta nel “valore dell'utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all'ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l'impoverirsi”, presupposto ben diverso da quello proprio dell’imposta sulle successioni e donazioni, ciò quasi palesando la preoccupazione che una tassazione collegata al vantaggio conseguito da un soggetto potesse permettere un rinvio sine die dell'assolvimento dell'imposta proporzionale.
Successivamente, però, la Suprema Corte ha contestato tale precedente orientamento35, adducendo, in virtù dell’articolo 12, comma 1, prel., che il significato proprio di una legge va interpretato in base alla connessione delle sue parole, per cui si deve concludere che l'unica imposta espressamente istituita dalla norma è la reintrodotta imposta sulle successioni e donazioni, applicabile anche ai “vincoli di destinazione”, senza che ciò ne abbia variato il presupposto dell'imposta, stabilito dall’articolo 1, D.Lgs. 346/1990, cioè il reale trasferimento di beni o diritti e, quindi, il reale arricchimento dei beneficiari.
In particolare, il più recente e condivisibile orientamento di legittimità ha attribuito rilievo al fatto che l'imposta introdotta nell’ambito del Testo unico dell’imposta sulle successioni e donazioni deve essere posta in relazione con “un'idonea capacità contributiva”, dovendosi considerare che il conferimento di beni e diritti in trust non è in grado, proprio per la natura dell’istituto, di determinare un trasferimento imponibile, rappresentando un atto generalmente neutro, inidoneo al passaggio di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta, la cui tassazione deve presupporre non una mera “utilità economica”36, ma un effettivo incremento patrimoniale in favore del beneficiario.
La Suprema Corte, infatti, ha rilevato che la novellata struttura del tributo ha mantenuto la propria disciplina unitaria, ciò nonostante le distinte ipotesi impositive, che si basano comunque sull'unico indice di capacità contributiva dato dall'attualità ed effettività dell'incremento patrimoniale, che deve, però, essere valutato tenendo conto della prospettiva causale unitaria dell'istituto del trust, cioè tenendo conto in modo puntuale del momento e del soggetto che manifesta la capacità contributiva, in quanto l'arricchimento non può verificarsi almeno sino all’avvenuta esecuzione del programma del trust.
La Corte contesta, quindi, la tesi d’indiscriminata tassazione dei vincoli di destinazione, perché non appare comprensibile la collocazione della “nuova imposta” accanto alle imposte sui trasferimenti di beni e diritti mortis causa o con animus donandi e ora anche a titolo gratuito, perché il principio dell'unità del diritto non permette di alterare la struttura sostanziale della fattispecie normativa; conseguentemente, non è possibile trarre dallo scarno disposto dell’articolo 2, comma 47, D.L. 262/2006 alcun fondamento normativo dell’avvenuta introduzione di un'autonoma imposta che giunga a colpire la costituzione dei vincoli di destinazione in assenza di qualsivoglia evento traslativo - in senso proprio - di beni e diritti. Ciò a pena, oltretutto, in caso di diversa interpretazione, di un deficit di costituzionalità della novella.
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