La CTR della Lombardia, con sentenza n. 2236/2018, esamina e affronta il rapporto fra le necessità di attuare un riassetto societario atto a garantire un efficiente passaggio generazionale e le operazioni concretamente poste in essere dai ricorrenti per giungere a tale scopo, analizzandole sotto la lente di ingrandimento dell'articolo 10-bis, L. 212/2000. La pronuncia de qua appare interessante, in quanto potrebbe essere foriera di un nuovo indirizzo della giurisprudenza di merito circa la legittimità e la non elusività della condotta dei contribuenti per quel che concerne le scelte effettuate nell’alveo della riorganizzazione aziendale.
Premessa
Il nostro sistema tributario ha le sue solide fondamenta nel principio sancito dall’articolo 53, Costituzione, secondo il quale tutti i cittadini devono concorrere al finanziamento della spesa pubblica in funzione della propria capacità contributiva. Sull’argomento moltissimi autori e studiosi del diritto hanno versato fiumi di inchiostro, perciò in tale sede appare superfluo effettuare una ricognizione teorico-dogmatica circa la portata e gli effetti del principio testé richiamato.
A ogni buon conto, è d'uopo sottolineare che il dovere di contribuzione ex articolo 53, Costituzione trova la sua massima esplicazione e attuazione nel correlato e conseguente divieto di evasione, condotta configurabile qualora un cittadino non adempia alla propria obbligazione tributaria, violando le norme fiscali vigenti.
Tra la rigorosa applicazione della legislazione tributaria e l'evasione sussiste uno spazio “grigio”, una sottile linea di confine, saggiamente positivizzata nell'articolo 10-bis, L. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente). Il contribuente, infatti, oltre a violare esplicitamente la disciplina fiscale, potrebbe porre in essere un comportamento diverso ma ugualmente lesivo del dovere ex articolo 53, Costituzione: più nel dettaglio, egli potrebbe tenere una condotta, tecnicamente nota come “elusione”, che rispetta solo nella forma i dettami della legge, ma che nella sostanza se ne discosta radicalmente, perché contraria alla ratio ispiratrice della stessa1. Il Legislatore, per prevenire e reprimere una simile pratica, ha espressamente previsto che:
“configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”2.
Questa norma, avente volutamente un raggio d’azione decisamente generico, ha lo scopo di evitare che il contribuente ponga in essere delle operazioni economicamente “vuote”, congegnate artificialmente al solo scopo di ottenere dei vantaggi fiscali formalmente leciti, ma sostanzialmente contrari al fine tipico della norma fiscale impiegata per conseguirli. Adoperando il grimaldello contenuto nell’articolo 10-bis, L. 212/2000, l'Amministrazione finanziaria ha la possibilità di aprire la “serratura” delle più complesse operazioni economico-societarie e di valutarle in funzione della loro possibile natura elusiva, così da poterle eventualmente riqualificare, riprendendo a tassazione le somme a esse relative.
Una delle manovre più esaminate dall'Agenzia delle entrate concerne la rivalutazione, da parte di persone fisiche, delle partecipazioni societarie, beneficiando del pagamento di un’imposta sostitutiva, in vista della loro successiva cessione. Il motivo che giustifica la particolare attenzione riservata alle operazioni sopra descritte sta nel fatto che l'Amministrazione finanziaria sostiene spesso che quest'insieme di attività sia preordinato allo scopo di trasformare i redditi di capitale in redditi diversi, scontando così un'imposizione inferiore e più vantaggiosa.
Nel proseguo della trattazione verrà evidenziato come la CTR della Lombardia3, trattando una fattispecie molto simile a quella appena descritta, abbia pronunciato una sentenza molto interessante, avente il pregio di riconoscere sostanza economica alla necessità di attuare dei programmi volti a garantire il passaggio generazionale e il relativo riassetto societario nell'alveo di un insieme di società possedute da 2 fratelli.
Il fatto
Prima di analizzare le questioni giuridiche oggetto della pronuncia in commento, appare opportuno soffermarsi sulla vicenda fattuale che ha portato all’emissione di un avviso di accertamento da parte dell'Agenzia delle entrate e il ricorso avverso quest'ultimo atto da parte del contribuente, soccombente in primo grado ma vincitore in appello.
Due fratelli, Tizio e Caio, erano soci, ciascuno al 50%, di 2 società, la Alfa Srl e la Beta Snc. In data 5 dicembre 2010, Tizio cedeva la propria partecipazione nella Alfa Srl al fratello Caio e ai figli di quest'ultimo, trattenendo esclusivamente una quota dell'1% e ricevendo un corrispettivo pari a 940.500 euro. Prodromicamente a tale operazione, le quote sociali venivano rivalutate ex articolo 5, L. 448/2001, indicandone il relativo valore nel modello Unico 2011 e scontando un'imposta sostitutiva pari al 4 per cento. Ciò consentiva al contribuente di calcolare la successiva plusvalenza da cessione, come tale soggetta a tassazione, in funzione del valore della quota sociale così come rivalutata.
In data 13 dicembre 2010, Tizio e Caio cedevano le proprie partecipazioni nella Beta Snc alla Alfa Srl, per un corrispettivo pari a 1.600.000 euro, in parte finanziato mediante l'accensione di un mutuo fondiario. Anche questa operazione veniva preceduta da una rivalutazione delle quote societarie e dal pagamento della relativa imposta sostitutiva, atta a rendere possibile il calcolo della plusvalenza da cessione sul valore rivalutato.
Infine, il 5 ottobre 2011 veniva deliberata la fusione per incorporazione della Beta Snc (incorporata) nella Alfa Srl (incorporante).
L'Agenzia delle entrate, in virtù di un controllo effettuato nei confronti della Alfa Srl e dopo aver esaminato le operazioni di cessione delle quote societarie e di fusione per incorporazione, emetteva un avviso di accertamento a carico di Tizio, notificato in data 8 febbraio 2016. Secondo la tesi prospettata dall'ufficio, le operazioni effettuate integravano un abuso del diritto ex articolo 10-bis, L. 212/2000, rendendo conseguentemente opportuna la riqualificazione delle somme percepite da Tizio per la cessione della partecipazione nella Alfa Srl: esse, infatti, dovevano essere trattate come redditi di capitale, quindi tassati ex articolo 47, comma 7, D.P.R. 917/1986, e non come redditi diversi, così come disciplinati dall'articolo 67, D.P.R. 917/1986.
Altrimenti detto, l'Agenzia delle entrate sosteneva che il risultato complessivamente ottenuto dal contribuente sarebbe stato quello di monetizzare il costo rivalutato delle risorse investite nella società partecipata, raggiungendo in questo modo gli stessi effetti che avrebbe prodotto un recesso tipico, il quale genera un reddito di capitale.
Tizio presentava ricorso avverso l'avviso di accertamento, eccependo, fra gli altri motivi, sia il difetto di motivazione e di prova rispetto alla pretesa natura elusiva propugnata dall'ufficio, sia l'esistenza di una sostanza economica seria e immediatamente percepibile, consistente nella necessità di riorganizzare l'assetto societario e di garantire il passaggio generazionale fra Caio e i suoi nipoti, cioè i figli di Tizio.
La CTP di Bergamo, con sentenza n. 25/2017, respingeva però il ricorso presentato dal contribuente, condividendo l'assunto dell'Amministrazione finanziaria, secondo cui:
“nella fattispecie si è in presenza del c.d. “abuso del diritto”, in quanto gli attori delle operazioni in questione si sono legittimamente avvalsi soltanto sotto il profilo formale di istituti giuridici ai quali si può normalmente far ricorso nelle ipotesi in cui non si perseguano finalità elusive. Nel caso che ci occupa, per tutto quanto osservato dall'ufficio e da questa Commissione, nonché per la tempistica ravvicinata delle operazioni poste in essere, l'intento elusivo, finalizzato essenzialmente al conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, in assenza di sostanza economica dell'operazione e di ragioni extrafiscali non marginali (che se presenti, queste ultime, sottrarrebbero le operazioni dall'ambito dell'abuso del diritto, ai sensi del comma 3, articolo 10-bis, L. 212/2000), appare evidente nei fatti e nella sostanza degli stessi”.
Il contribuente proponeva pertanto ricorso in appello avverso tale decisione e l'Agenzia delle entrate presentava le relative controdeduzioni.
Le questioni giuridiche
La controversia sottoposta al vaglio della CTR della Lombardia, così come sapientemente risolta con la pronuncia in commento, ha sollevato ed evidenziato alcune problematiche meritevoli di approfondimento e interesse.
In primo luogo, i giudici di seconde cure hanno analizzato la fattispecie sottoposta al loro esame, cercando di valutare l'effettiva esistenza di una sostanza economica capace di spiegare l'insieme delle operazioni poste in essere dai contribuenti da un punto di vista diverso da quello prettamente fiscale.
Detto diversamente, la Commissione adita si è domandata se 1 dei 3 requisiti necessari affinché l'operazione de qua potesse essere inquadrata nell'alveo dell'abuso del diritto ex articolo 10-bis, L. 212/2000, e quindi ritenuta priva di sostanza economica, fosse presente nella condotta oggetto dell’avviso di accertamento.
Facendo un piccolo sforzo di astrazione, oltre a soffermarsi sulla soluzione prospettata dai giudici di secondo grado, ci si chiederà se le operazioni di riassetto aziendale possano definirsi prive di sostanza economica anche qualora siano dettate dalla necessità e volontà di effettuare un passaggio generazionale nella governance societaria.
Successivamente si prenderà in considerazione la questione attinente alla riqualificazione della somma percepita dal ricorrente come reddito di capitale e non come reddito diverso, basata anche sulla prodromica rivalutazione delle quote societarie.
In ultima istanza, si procederà a un’analisi comparata delle diverse alternative proposte dall’ufficio, fornite al fine di motivare l'insussistenza di una qualsivoglia ragione economica giustificatrice della condotta posta in essere dall’appellante.
L’abuso del diritto tributario
Per comprendere e saggiare la legittimità della pronuncia emessa dalla CTR della Lombardia appare opportuno un breve esame della figura dell'abuso del diritto, così come disciplinata nello Statuto del contribuente.
In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio trova fondamento nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. Esso comporta l'inopponibilità del negozio all'Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione4.
Dalla lettura della norma contenuta nell'articolo 10-bis, L. 212/2000 si evince come tale fattispecie astratta sia caratterizzata dalla necessaria sussistenza di 3 requisiti costitutivi diversi, ma tutti teleologicamente collegati.
In primo luogo, la legge richiede che l'operazione oggetto dell'indagine da parte dell'Amministrazione finanziaria realizzi un vantaggio fiscale indebito, cioè un beneficio economico-finanziario ottenuto agendo in contrasto con le finalità proprie delle norme fiscali o dell'ordinamento tributario.
Il secondo requisito consiste nella inesistenza di una sostanza economica in capo all'operazione svolta dal contribuente. Vista la genericità e astrattezza della formula in esame, il Legislatore ha espressamente inserito una specificazione in merito a tale caratteristica, definendola come quei fatti, atti o contratti, anche collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Alcuni indici rivelatori di questa condizione sono l'incoerenza delle singole operazioni con il fondamento giuridico dell'intero insieme oppure la non conformità dell'utilizzo di quei particolari strumenti giuridici con le normali logiche di mercato.
In questa sede non si può non citare il più recente orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui l'operazione economica che abbia quale suo elemento predominante e assorbente lo scopo di eludere il fisco costituisce condotta abusiva, la quale, pertanto, non ricorre qualora tale operazione possa spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull'Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale5.
L'ultima condizione imposta dalla normativa fiscale consiste nella essenzialità del vantaggio fiscale indebito: il beneficio ottenuto con l'impiego dell'operazione reputata elusiva deve essere l'essenza e il cuore dell'intero congegno negoziale.
Laddove si riscontri la presenza di tutte e 3 le condizioni testé riportate6, il contribuente ha la possibilità di “giustificare” il proprio modus operandi, dimostrando l'esistenza di valide ragioni extrafiscali. Secondo quanto previsto dall'articolo 10-bis, comma 3, L. 212/2000, infatti, non si considerano abusive quelle operazioni, non marginali, attuate allo scopo di raggiungere delle finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa o dell'attività professionale del contribuente.
Dopo questa brevissima illustrazione è possibile procedere con la disamina delle questioni giuridiche prima elencate, evidenziando sia le soluzioni adottate dai giudici di secondo grado sia le possibili osservazioni in merito alla disciplina sull'abuso del diritto tributario nell'alveo delle operazioni societarie di cessione delle partecipazioni e di fusione per incorporazione.
Le soluzioni
La prima questione affrontata dall'adita CTR nella pronuncia in commento concerne la verifica della sussistenza dei 3 requisiti, prima sommariamente illustrati, necessari perché possa configurarsi l'abuso del diritto tributario.
I giudici di merito, dopo una esauriente esposizione dei fatti di causa, hanno condotto una disamina volta a determinare se l'operazione posta in essere dal contribuente accertato fosse effettivamente priva di sostanza economica e se potesse essere giustificata dall'esistenza di ragioni extrafiscali non marginali.
In primo luogo, essi hanno ritenuto legittima e non censurabile da parte dell'Agenzia delle entrate la rivalutazione delle quote societarie ai sensi dell'articolo 5, L. 448/2001. In virtù di quanto disposto dall'articolo 10-bis, comma 4, L. 212/2000, infatti, il contribuente può esercitare liberamente il diritto di scelta fra i diversi regimi opzionali concessi dall'ordinamento tributario, usufruendo in tal modo delle relative agevolazioni fiscali.
Successivamente, l'organo giudicante ha espresso il proprio convincimento in merito sia alla natura non indebita del vantaggio fiscale conseguito sia alla reale sostanza economica dell'intero complesso di attività svolte dal contribuente e dall'altro socio, aventi il proprio apice nell'operazione di fusione per incorporazione.
La motivazione alla base di tale decisione è che:
“le operazioni poste in essere erano chiaramente volte alla riorganizzazione dell'assetto societario, con l'uscita di Tizio e l'entrata in società dei figli di Caio, per passaggio generazionale dell'azienda e liquidazione delle partecipazioni sociali di Tizio… La successiva fusione per incorporazione è stata effettuata avvalendosi lecitamente di mezzi finanziari, in connessione alla riorganizzazione societaria, che non avrebbe potuto essere realizzata diversamente per mancanza di liquidità dei soggetti interessati”.
Dunque, la CTR ha smontato la tesi prima propugnata dall'ufficio e poi accolta dai giudici di prime cure negando la sussistenza dei presupposti costitutivi dell'abuso del diritto tributario. Altrimenti detto, è possibile affermare che l'esistenza di un mero vantaggio fiscale non sia affatto sufficiente perché si possa parlare di elusione ex articolo 10-bis, L. 212/2000, stante la presenza sia di una sostanza economica che di più di una valida ragione extrafiscale, le quali si configurano nella volontà di garantire il passaggio generazionale fra Tizio e i figli di suo fratello e nella correlata liquidazione della partecipazione del socio uscente, cioè Caio.
La soluzione proposta dalla sentenza in commento risulta molto interessante, sia perché indice di una nuova e maggiore sensibilità della giurisprudenza di merito nei confronti delle operazioni societarie volte a riorganizzare gli assetti proprietari, sia perché valutabile alla stregua di una guida necessaria per districarsi nella difficile materia delle relazioni fra le vicissitudini aziendali e le norme fiscali.
Da quest'insegnamento è possibile trarre una regola di stampo generale: le operazioni societarie, anche straordinarie, preordinate a promuovere e realizzare il ricambio generazionale, liquidando un socio e permettendo l'ingresso nella compagine proprietaria dei suoi parenti, nell'ipotesi in cui vengano attuate avvalendosi di tutte le disposizioni di legge, comprese quelle agevolative e di opportunità economica, non possono qualificarsi sic et simpliciter come elusive, stante sia la loro natura non priva di sostanza economica sia la presenza di valide ragioni extrafiscali non marginali.
Sotto tale profilo, appare d'uopo citare una circolare dell'Agenzia delle Entrate, secondo la quale l'acquisizione di una società mediante indebitamento con successiva fusione non può essere considerata “abuso del diritto” se i soci delle società non sono gli stessi7, requisito rispettato nel caso concreto proprio grazie alla presenza dei figli di Caio fra i soci dell'incorporante.
La Commissione adita, inoltre, non ha ritenuto opportuno analizzare gli altri motivi di appello, considerandoli assorbiti, e ha accolto la doglianza proposta dal contribuente, ordinando l'integrale riforma della sentenza formulata in primo grado.
Secondo il sommesso parere dello scrivente, però, anche le altre questioni meritano perlomeno di essere ponderate, analizzate e risolte.
I giudici di prime cure avevano rilevato che la “liquidazione” posta in essere non era altro che un'operazione dalla natura circolare, effettuata con il solo scopo di distribuire i dividendi al socio uscente senza scontare l'apposita tassazione di riferimento, stante l'utilizzo improprio della norma sulla rivalutazione delle quote societarie.
L'insieme delle attività poste in essere dal contribuente accertato, dunque, sarebbe servito per permettergli di esercitare sostanzialmente un recesso tipico, camuffato sotto le mentite spoglie di una cessione di partecipazioni e per questo censurabile come condotta elusiva ex articolo 10-bis, L. 212/2000.
Il corollario della riqualificazione del congegno negoziale come recesso tipico consiste nella tassazione delle somme ricavate dalla cessione delle partecipazioni non come capital gain ma come distribuzione di dividenti, applicando quindi la disciplina contenuta nell'articolo 47, D.P.R. 917/1986.
La decisione risulta criticabile sotto 2 punti di vista.
In prima luogo, perché si possa parlare di recesso tipico occorre che sia stato effettuato l'annullamento delle quote o delle azioni, diversamente da quanto accade in quello atipico, nel quale le partecipazioni sono acquistate dagli altri soci. Nella prima ipotesi, infatti, le risorse vengono reperite dalla società, mediante le riserve di utili o di capitale (ove disponibili), mentre nel secondo caso gli acquirenti devono procurarsi le provviste monetarie necessarie per comprare le partecipazioni sociali.
Nella controversia de qua, l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle entrate riguarda la prima operazione di cessione, la quale non è stata effettuata con mezzi propri della società ma con le disponibilità finanziarie del socio acquirente. Per sostenere la natura di recesso tipico, dunque, l'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto dimostrare che la società aveva procurato le risorse necessarie a rimborsare il socio uscente.
Il mutuo fondiario contratto dalla Alfa Srl per permettere l'acquisto delle partecipazioni nella Beta Snc, detenute da Tizio e Caio, invece, riguarda la seconda operazione: mentre il finanziamento bancario è stato richiesto dalla società acquirente, l'accertamento dell'ufficio è stato condotto relativamente al presunto recesso dalla società target, cioè quella successivamente acquisita.
Anche la considerazione riguardante l'avvenuta fusione per incorporazione non appare decisiva nello smontare l'argomentazione di cui sopra: il recesso tipico comporta inevitabilmente una riduzione del patrimonio della società che lo subisce, condizione non accaduta nel caso di specie, stante la compensazione fra l'indebitamento iscritto nelle poste passive e l'aumento di quelle attive, dovuto all'iscrizione nelle stesse delle partecipazioni ottenute.
In seconda battuta, non è possibile adoperare lo strumento dell'abuso del diritto tributario poiché manca, fra gli altri, anche il carattere indebito del vantaggio fiscale conseguito: l'intento del socio non era quello di recedere dalla società ma quello di realizzare un trasferimento delle partecipazioni all'altro socio e ai suoi nipoti, in pieno accordo con la ratio legis della norma sulla rivalutazione, la quale, secondo un'autorevole dottrina, è stata ideata col fine di riconoscere dei benefici tributari nelle vicende reddituali di disinvestimento delle partecipazioni rivalutate. In altri termini, la cessione delle quote, la loro prodromica rivalutazione e l'iscrizione della somma percepita fra i redditi diversi e non fra quelli di capitale risponde sia alla reale natura dell'operazione, non qualificabile come recesso tipico ma come trasferimento delle partecipazioni, sia alla finalità perseguita dal Legislatore con la norma contenuta nell'articolo 5, L. 448/2001.
Dopo aver respinto l'inquadramento della cessione delle quote sociali nell'alveo del recesso tipico e aver stabilito che la precedente rivalutazione delle stesse non può essere considerata indebita, in quanto rispondente alle finalità proprie della norma che la disciplina, è possibile concludere analizzando l'ultimo, ma non per questo meno importante, punto richiamato dalla sentenza della CTR della Lombardia, cioè la fondatezza e la fattibilità delle alternative prospettate dall'ufficio, nell'avviso L'Amministrazione finanziaria, infatti, aveva rilevato che l'assetto societario conseguito a seguito delle operazioni poste in essere dalle società si sarebbe potuto ottenere ricorrendo ad altre 2 alternative: una fusione senza concambio tra le 2 società, con una successiva cessione delle quote del socio Tizio; la liquidazione della Beta Snc, con l'acquisto del suo immobile da parte della Alfa Srl e successiva cessione della partecipazione di Tizio. La CTR della Lombardia ha aspramente criticato questo modo di agire, ricordando che le scelte imprenditoriali e i relativi rischi economico-fiscali sono interamente a capo dell'imprenditore, il quale non può essere sostituito da altri soggetti, soprattutto in virtù del fatto che questi non rispondono finanziariamente e personalmente delle decisioni circa la conduzione e l'organizzazione dell'impresa.
Seguendo questo ragionamento, l'organo giudicante è entrato nel merito delle altre opzioni prima evidenziate, ritenendo che esse siano state fatte proprie dai giudici di prime cure nonostante l'assenza di alcuna giustificazione e fondamento, senza un'adeguata motivazione in diritto.
Nella sentenza si legge che:
“a prescindere dalla complessità delle 2 operazioni testé prospettate, non è palese quali siano i meri vantaggi fiscali (per altro esigui, secondo quanto accertato), conseguiti dalla parte contribuente in base alle scelte effettuate”.
Dunque, è possibile affermare sia che le alternative tratteggiate dall'ufficio risultano decisamente più onerose e complesse, essendo di difficile attuazione per il contribuente, privo di una ingente disponibilità di liquidità, sia che l'operazione effettuata non ha portato un vantaggio fiscale decisivo ed essenziale (la somma richiesta dall'Agenzia delle entrate era di ammontare pari a 3.476,18 euro ed era comprensiva di interessi e sanzioni).
Le conclusioni
La figura dell'abuso del diritto in campo tributario consiste in una clausola elastica, capace di reprimere e prevenire le condotte elusive dei contribuenti, effettuate rispettando solo la forma ma non la sostanza della normativa fiscale.
Nella controversia in esame è stato possibile notare come la generalità della fattispecie astratta abbia determinato una valutazione erronea da parte dei giudici di primo grado, i quali non avevano ritenuto sussistente l'esimente delle valide ragioni extrafiscali.
L'organo giudicante di seconde cure, accogliendo l'appello del contribuente, ha prestato più attenzione alle esigenze di riassetto societario dovute al passaggio generazionale, attuato mediante le cessioni delle quote e la successiva fusione per incorporazione delle società Alfa Srl e Beta Snc.
Nella conclusione di questo lavoro è opportuno tracciare 3 profili di problematicità.
In prima istanza, appare censurabile la condotta posta in essere dall'Agenzia delle entrate, che ha emesso un avviso di accertamento privo di fondatezza: essa, infatti, da un lato ha ripreso a tassazione un'imposta di importo davvero esiguo, così evidenziando l'insussistenza di un concreto vantaggio fiscale determinato a fronte di una complessa riqualificazione dell'operazione, e dall'altro ha prospettato delle alternative decisamente più dispendiose a livello finanziario e più complesse da realizzare.
Questa situazione porta alla luce un “abuso dell'abuso del diritto”, contrario sia al fondamentale principio della capacità contributiva di cui all'articolo 53, Costituzione sia al canone essenziale di buona fede e correttezza ex articolo 10, L. 212/2000.
Successivamente, appare ragionevole ipotizzare come l'alternativa ideale all'operazione posta in essere avrebbe potuto essere quella di non procedere alla fusione fra le 2 società, utilizzandone una come holding8.
La soluzione appena citata avrebbe comportato 3 diversi vantaggi: sarebbe stata più facilmente difendibile sotto il punto di vista fiscale, avendo la chiara funzione extrafiscale di mettere al riparo gli utili conseguiti dalla società operativa da eventuali rischi di gestione; avrebbe reso più gestibili i possibili futuri conflitti familiari interni dovuti al passaggio generazionale; avrebbe reso più semplice la predisposizione delle linee strategiche del gruppo societario e l'approvazione dei relativi piani.
In ultimo, è d'uopo sottolineare che spetta ai giudici l'arduo compito di sussumere la fattispecie astratta in quella concreta, pratica molto complessa nelle situazioni simili a quella oggetto della sentenza in commento.
L'organo giudicante, infatti, deve preliminarmente valutare attentamente la sussistenza di tutti i criteri previsti dall'articolo 10-bis, L. 212/2000, per poi procedere a verificare l'esistenza di una ragione extrafiscale non marginale, il cui onere probatorio ricade interamente sul contribuente.
Anche se, da un punto di vista teorico, tutto ciò sembra relativamente semplice, nella pratica non è affatto facile carpire la reale natura delle attività poste in essere dai contribuenti, soprattutto qualora ci siano delle situazioni che richiedono un'attenta analisi delle ragioni per le quali le operazioni oggetto di accertamento sono state realizzate.
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